(tratto dalla rubrica “I Labirinti della Psyche”
presente sul sito www.scienzaesalutesilviadedonno.it
e pubblicato il 15/11/15)
I disturbi d’ansia rientrano sicuramente tra i disturbi psichici maggiormente diffusi nella nostra società, ma è fondamentale capire di quale ansia si parla in questi casi. A chiunque, infatti, sarà capitato di sentirsi particolarmente nervoso o agitato e di confondere erroneamente tali sensazioni con l’ansia propriamente detta. Allo stesso modo, è abbastanza frequente che molte persone si descrivano come tipi particolarmente ansiosi perché tendono ad essere apprensivi e a preoccuparsi di tutto quello che succede nella loro vita. In situazioni come queste, è corretto parlare di ansia? E quale valore assume il sintomo ansioso in una logica diversa come quella psicoanalitica? Secondo la letteratura, possiamo definire ansia il processo psichico attraverso il quale l’individuo reagisce a stimoli esterni di pericolo, attivando risposte che coinvolgono sia il soma che la psiche (Invernizzi, 2006, p. 161). Il ruolo dell’ansia, secondo questa definizione, sarebbe non solo quello di segnalare un pericolo, ma anche di predisporre il soggetto a due possibili modalità comportamentali: la fuga o l’attacco. Vari autori sottolineano la fondamentale distinzione tra ansia fisiologica (o eustress) e ansia patologica (o distress). La prima determina un’attivazione delle funzioni psicofisiche del soggetto in maniera funzionale al superamento dell’ostacolo o del pericolo; il classico esempio è quella dell’ansia pre-esami che tutti abbiamo sperimentato e che permette di affrontare l’esame con la giusta carica per superarlo. Diverso è il discorso per l’ansia patologica, in cui l’attivazione delle funzioni psicofisiche risulta sproporzionata allo stimolo e determina una riduzione delle capacità operative dell’individuo; riprendendo l’esempio dell’ansia pre-esami, in questo caso lo stato di attivazione è tale da determinare un fallimento o addirittura la rinuncia a sostenere l’esame stesso. Possiamo dunque affermare che l’ansia diventa patologica quando si perde il controllo delle proprie emozioni, si sperimentano sentimenti di impotenza e insicurezza e si è incapaci di affrontare situazioni nuove o impreviste, con conseguente sofferenza e disagio. Secondo la prospettiva che vi ho brevemente presentato, l’ansia patologica rappresenta un’anomalia delle capacità di giudizio e di adattamento della persona a cui si dovrebbe far fronte con approcci che mirano ad una modificazione e riorganizzazione degli schemi di pensiero disfunzionali. Questa modalità di intervento può sicuramente risultare utili in molti casi ma spesso non è sufficiente. Ed è qui che entra in gioco un punto di vista diverso che è quello proposto dalla psicoanalisi e che vorrei brevemente accennarvi. In un’ottica psicoanalitica, è fondamentale distinguere tra angoscia e ansia. L’angoscia può essere definita come un sentimento pervasivo e molto intenso di impotenza, un senso di oppressione che genera ansia, agitazione e affanno. Jacques Alain Miller, famoso psicoanalista lacaniano, definisce l’angoscia uno stato di malessere che attanaglia quando ci si sente minacciati nell’esistenza senza riuscire a comprenderne le cause o senza essere capaci di porvi rimedio (Miller, 2006, p. 9). Quando parliamo di angoscia, ci troviamo di fronte a qualcosa che coinvolge il soggetto nelle profondità del proprio essere, una sorta di turbamento che nasce dall’interrogazione su se stessi e sulla propria esistenza. Per Jacques Lacan, psicoanalista francese alla cui scuola mi sto formando nella mia pratica clinica, l’angoscia è una via di accesso al Reale, dove per Reale non intendiamo la realtà oggettiva in cui viviamo ma piuttosto l’essere stesso del soggetto, la stoffa più intima di cui è fatto. In questo senso, l’angoscia può assumere una inedita connotazione positiva poiché può portare la persona ad aprirsi ad una riflessione soggettiva sulla propria vita e ad iniziare un percorso analitico che le consenta di risalire alle radici del proprio sintomo. Non bisogna infatti dimenticare che, per la psicoanalisi, il sintomo dice sempre qualcosa della verità del soggetto e solo un ascolto attento ed analiticamente orientato può permettere alla persona di accedere alla dimensione più intima e inaccessibile del proprio essere.
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